Assistere alla mostra di Annie Leibovitz, artista e decisa sostenitrice dell’uguaglianza di genere, è stato come ritrovarsi accolti a casa di una vecchia amica che mettendoti a tuo agio ti racconta di quella volta che ha incontrato Jane, Patti o Elizabeth. Tutto bene se solo non si trattasse di J.Goodall, P.Smith o Queen E.
Ebbene, il piccolo ingresso che ti accoglie tra i rami d’edera, li subito dopo il cortile, rivela presto uno spazio industriale, recuperato, ampio ed arioso ma al contempo in grado di sussurrare “vieni, ma fai attenzione a dove metti i piedi”.
La luce è bassa anche se è giorno e una zona, intima esattamente come un piccolo salotto per bene, è stato costruito in una zona centrale. C’è un divano di ricercato modernariato color ecrù, delle lampade che emanano una luce calda creando un’atmosfera rilassata e un lungo susseguirsi di tavoli su un lato che mettono a disposizione a chiunque lo desideri volumi e cataloghi di fotografia quasi come per permettere di prepararsi adeguatamente prima di varcare la soglia della stanza adiacente.
L’area che si intravede infatti poco più in là, è la zona espositiva vera e propria della mostra: una volta varcata la soglia ciò che colpisce è una parete sulla quale sono esposte una accanto all’altra fotografie in un bel formato ampio di alcune delle donne più significative che l’artista ha potuto ritrarre nella sua carriera. Vengo colpita immediatamente da alcune di queste e poi ne scruto i dettagli, la luce, l’ambientazione che pare esser colta con estrema naturalezza dalla Leibovitz nel ritrarre le protagoniste, senza quasi apparente costruzione.
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